gisecat3@ - «Se, andando a ritroso nel tempo, ma con la coscienza dell’oggi, potessimo sorvolare, come fa un gabbiano, le coste elbane degli anni ‘50, quello che colpirebbe il nostro sguardo acuto sarebbero i litorali semideserti, anche in piena estate, le colture che lambiscono la spiaggia, i pagliai a pochi passi dalla battigia, la mancanza di edifici alle spalle degli arenili. Ci sorprenderebbe anche il paesaggio meno verde dell’attuale, perché la macchia mediterranea era tenuta lontana dai paesi e qualsiasi fazzoletto di terra andava coltivato e reso produttivo. L’Elba, che usciva dalla guerra e dallo smantellamento della sua industria siderurgica a Portoferraio, poteva ancora contare sul cuore minerario pulsante di Rio, Rio Marina e Capoliveri, sull’antica lavorazione del granito di San Piero e Sant’Ilario e sulla dura arte della navigazione di molti dei suoi uomini e ragazzi, che diventavano marinai e mozzi sui mercantili di mezzo mondo. Chi non era minatore o scalpellino o non andava d’accordo col mare, era agricoltore o pescatore o commerciante. Talvolta queste attività si fondevano: si tornava dalla cava e si zappava la vigna oppure si prendeva il gozzo e si calava un tramaglio. Tutto per mettere insieme il pranzo con la cena. La vocazione turistica dell’isola era incerta, anche se i più lungimiranti avevano già intuito le potenzialità del territorio: come non pensare infatti che un paesaggio naturale e umano così vario, con i colori dominanti del verde e dell’azzurro, con un mare incontaminato, spiagge dorate, paesini come presepi e un capoluogo storicamente importante, non attirasse gente per il ristoro del corpo e dello spirito? E così, nelle cartoline illustrate di quel decennio, accanto alle immagini di un’Elba oggi scomparsa, col cavallo da lavoro in primo piano, le agavi col loro raro fiore e una collina interamente coltivata dalla base alla sommità, ne esistono altre che testimoniano la preistoria del turismo di massa». M. Gisella Catuogno