lomarchetti@ - «Nei piccoli
paesi la campagna elettorale per l’elezione del nuovo consiglio comunale era
molto sentita e pertanto partecipata dai cittadini anche perché, molte volte, la
vittoria o la sconfitta di una lista si giocava per una manciata di voti. Per questo
gli schieramenti politici cercavano, allora come oggi, di conquistare la piazza principale del paese
dalle 23.00 alle 24.00 del giorno di chiusura della campagna elettorale, dopo il
fatidico venerdì prima del voto, infatti, era vietata ogni forma di propaganda.
In quel paese, siamo negli anni '70, i democristiani riuscirono a conquistare la piazza fino alla
mezzanotte, quindi l’ultima parola sarebbe stata loro, perciò la lista socialcomunista
si mise l'animo in pace. I democristiani, tuttavia, avevano un andicap: non disponevano di un
oratore in grado di contrastare la furia oratoria dei rossi. E quando questi
lasciarono il palco alla lista di parte avversa, nella piazza ci fu uno sventolio di bandiere scudocrociate e si diffusero le note del canto
del “Bianco fiore”, tuttavia nessun comiziante si avvicinava al microfono. Nel retropalco ci fu chi notò un’agitazione che presto si
trasformò in un forte trambusto: “Parli tu? Non, è meglio che parli lui! E perché
lui e non io?”. Poi l’inno finì e dagli altoparlanti, già alzati a tutto volume, fu diffusa una voce: “Zitti! Zitti! Parla lui che è maestro”. A noi, a distanza di anni, non è
dato sapere se il maestro riuscì a convincere gli elettori, e di conseguenza quale
fu l’esito dell’elezione, però quella battuta è rimasta in voga fino ai
giorni nostri, magari non rivolta a un maestro ma riferita a un avvocato». Lorenzo M.