lomarchetti@ - «Dina
era una donna che spruzzava simpatia da ogni poro. Viveva a Savona con il
marito Umberto, e non avevano figli. Lei all’anagrafe era una Berti, ma per
tutti era Dina la Moraccini dal cognome del consorte. Era molto amica di mia
nonna Silvia. Quando all’inizio della primavera lei e Umberto venivano a Rio
Marina, il loro paese d’origine, mia nonna mi portava a salutarla nella loro mansarda
che si trovava sopra la ferramenta di Mirta. Altre volte andavamo nella loro
casa delle Giudimente che io ricordo per il forte profumo di rosmarino. Dina,
però, nelle calde giornate d’agosto veniva nel nostro orto nei pressi dei
Macelli dove, all’ombra della pergola narrava gradevoli aneddoti di gioventù.
Tuttavia, nei rari momenti in cui metteva da parte la sua solita allegria, ci raccontava
delle sciagure alle quali aveva assistito durante la sua vita di volontaria
soccorritrice della Croce Bianca savonese: esseri con braccia o gambe
maciullate, teste staccate di netto, corpi bruciati o addirittura carbonizzati
e tanto altro. Loro, le amiche paesane, l’ascoltavano a bocca aperta, ma
siccome si avvicinava l’ora di pranzo, mia nonna pensava bene di accendere il fuoco
nel camino all’aperto dove metteva una grossa pentola d’alluminio con i manici
d’ottone, e quindi fare una bella minestra con i frutti dell’orto appena colti.
Poi tutti a mangiare all’ombra della pergola. Un giorno, mentre pranzavamo, dal
pergolato cadde una lucertola che finì nel mio piatto e morì affogata nella mia
minestra. Io lanciai un urlo disperato, ma Dina non si scompose, tolse il corpo
della lucertola dalla mia scodella che scambiò con la sua, e impassibile infilò
il cucchiaio in quello che era diventato il mio ex piatto, riprese a mangiare e commentò: “Ne ho viste di
peggio!”». Lorenzo M.